Ma il peggio doveva ancora venire. Dopo pochi passi m’imbattei in un uomo che si teneva come sospeso. Aveva gli occhi aperti, ma sono sicuro che non mi vide, che neanche avvertì la mia presenza. Al suo confronto, non so perché, mi sentii un meschino.
Io ero vestito con un abito di lino, lui era nudo. Io due ore prima ero uscito da una doccia e mi ero asciugato con una profumata toilet powder, lui era coperto da uno strato di polvere. Io calzavo scarpe morbide come guanti, lui aveva i piedi nudi, ma di stazza michelangiolesca. Io ero apparentemente mingherlino, ma mi sentivo sazio. Pesante, greve, stratificato di benessere; lui era pieno, forte e possente nell’architettura delle membra; eppure, mentre per me la magrezza era un freno, per lui, la sodezza era un punto di decollo. La mia mobilità era un segno nevrotico, la sua immobilità un segno di vita. In una qualsiasi altra parte del mondo, davanti a un uomo ridotto in quelle condizioni, avrei lanciato un obolo, una lira o una rupia che alla fine gli buttai avanti ai piedi. Ma quando mi avvidi che nessun segno aveva seguito il mio gesto, ebbi la misura della mia volgarità. Dacché pensavo che lui nudo, sporco, impolverato, lacero, dovesse provare vergogna di me; alla fine, la mia inalberata coda di europeo si fece sottile e mi rientrò tra le gambe.
(Domenico Rea, Bombay, in Opere, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2005)