Se per disavventura non restasse prova alcuna della permanenza di Boccaccio a Napoli e persino la storia non ne facesse cenno, né nei suoi libri si trovasse citata una sola volta Napoli e i luoghi del suo Regno, se tutto questo fosse sepolto e cancellato, resterebbe la prova sostanziale nel mondo delle cose e dei fatti che egli espresse.
Non mi riferisco soltanto alle novelle napoletane come Andreuccio o al quasi atto unico di Peronella, ma allo spirito, alle analogie linguistiche e alle travature che reggono la maggioranza delle sue pagine.
Quando Boccaccio nella piena maturità lascerà Napoli, Firenze gli apparirà una città malinconica e noiosa. «Dell’essere mio in Firenze contro piacer vi scrivo, però che più tosto con lacrime che con inchiostro sarebbe da dimostrare». Napoli è la città «lieta, pacifica, abbondevole, pacifica» contro Firenze di «avara e invidiosa gente fornita». A Napoli non ha nemici, ma amici. Trova gentiluomini disposti ad ascoltare i suoi racconti; una corte e un seguito amanti della buona vita. Anche se il Regno si avvia verso una turbolenta discendenza, queste sono preoccupazioni di coloro che governano. Gli altri non perdono tempo in amarezze. La vita mondana qui ha raggiunto un alto grado di perfezione e di raffinatezza. Gli amori, le avventure, gli adulterii, i ratti di donne, le serenate sono all’ordine del giorno.
Boccaccio prende parte a questo spettacolo ora da comparsa, ora da protagonista. Il denaro non gli manca. Giorno per giorno approfondisce ed estende i suoi studi e comincia a realizzare i suoi primi progetti di scrittore. Non sa ancora bene che cosa vada cercando nel mondo dell’arte, ma, vivendo, raccoglie con acume i materiali che lo faranno grande un giorno. Napoli è una città in movimento. Alla parte vecchia, cupa e lurida, si sono aggiunte nuove strade, piazze, chiese, certose. Vi sono pubbliche voliere e pubblici giardini attigui a Castelnuovo. A corte le feste sono grandiose e «mentre gli argentei vasi davano le copiose vivande, il lavorato oro i preziosi vini concedeva, e le reali sale d’ogni parte di nobili giovani serventi si vedevano piene, varj suoni facevano la silente aura fremire» (Ameto). «Né solamente i signori e i borghesi s’abbandonavano a sfrenata licenza. La plebe anche essa affollavasi al porto e nella vicina piazza delle Corregge, dov’era continuo lo sbarco dei forestieri, e l’adunarsi di marinari, trecconi, ciarlatani, sfaccendati, che facevano baldoria e s’azzuffavano, ponendo a tumulto tutta la contrada» (De Blasiis).