Contraddetti

Giovanni Raboni, Giù le mani da Rea fantacritici

«Il Corriere della Sera», 1 maggio 1994

Chissà se anche il primo romanzo di Domenico Rea, Una vampata di rossore, pubblicato nel 1959 e riproposto ora da Mondadori a pochi mesi dalla scomparsa dello scrittore napoletano, apparteneva per gli adepti del Gruppo 63 a quell’ «intimismo becero», a quella «cultura altisonante e lamentosa», altrimenti detta «della consolazione», a cui alcuni di loro sono tutt’ora convinti (come risulta dallo straordinario brano di fantacritica del passato che è la risposta di Angelo Guglielmi a Franco Cordelli su «Tuttolibri» del 23 aprile) di essersi eroicamente e vittoriosamente opposti.

Per come li conosco o ricordo, non me ne stupirei più di tanto: e credo, del resto, che a Rea non sarebbe affatto dispiaciuto essere messo nel mazzo degli «intimisti beceri» assieme alla Morante, a Pratolini, a Bassani, a Cassola, a Fenoglio, a Parise, al primo Calvino, eccetera, insomma i narratori di cui la letteratura italiana menava ingenuamente vanto prima che la neoavanguardia giungesse a farne piazza pulita e a soppiantarne definitivamente le opere con capolavori intramontabili come Capriccio italiano di Sanguineti o Tristano di Balestrini.

Ma lasciamo perdere queste amenità (fattesi poi, per disgrazia dei più piccini, granitica e manualistica certezza nelle teste di alquanti professori di scuola media e dei loro mallevadori universitari) per dire come la storia, il clima, le figure, l’impasto cromatico e linguistico del romanzo di Rea abbiamo conservato – a distanza di 35 anni e di tante polemiche tra bande di pastorelli, di tante arcadiche pseudo rivoluzioni – tutta la loro forza di verità e d’orrore, tutto il loro pesante, potente fiato d’amarezza. Pensando a quanto (e giustamente) ci siamo nel frattempo innamorati delle pagine e dei personaggi di Garçia Marquez o di Onetti, viene da chiedersi come abbiamo fatto a non accorgerci che ce l’avevamo in casa, a Posillipo, il nostro grande latinoamericano.