hanno scritto di lui / I portoni della percezione
di Domenico Scarpa
La novità che Domenico Rea introduce nella nostra letteratura subito dopo la conclusione dell’ultima guerra mondiale riguarda gli strumenti percettivi: il suo uso dei cinque sensi nel costringere la realtà in parole, la forza con cui impone le deformazioni della sua ottica, gli arbitrii della sua acustica, l’irrequietudine del tatto e dell’olfatto, la prepotenza del gusto. Rea si mette a scrivere come se non gli avessero spiegato niente del mondo, il funzionamento di nessuna cosa, e lui che se le è trovate per le mani le mette in moto comunque – in una maniera, però, stravolta. È con le parole che Rea esegue questo esercizio: con ogni singola frase, con ogni immagine, con ogni gesto e oggetto e con ogni battuta lanciata dai suoi personaggi. È raro assistere a un esercizio percettivo che sballa tutte le misure conosciute, e che arriva a darci un’esattezza proveniente da un altro mondo, che non ti lascia cogliere il punto dove finisce l’istinto e comincia il calcolo.
In Rea le cose hanno un manico diverso dal normale: «Mi rasai, mi lavai e vestii la sua divisa con una canzone fra la bocca». Siamo nel primo brevissimo racconto (La «Segnorina») del suo primo libro Spaccanapoli, uscito nel 1947, e quella preposizione incongrua, «fra la bocca», è solo l’esempio minimo dello scuotimento subìto dal linguaggio, della passatoia tirata via senza preavviso da sotto le scarpe del lettore: «C’era la roba vecchia, l’una sull’altra, che guardai immobile al pensiero dell’ordine di prima». L’ordine di prima è sconvolto, e non si sa quando ne subentrerà un altro.
La «Segnorina» è la storia di una coltellata per gelosia, sicché l’immagine del manico è giustificata: «Io, di fuori, andavo avanti e indietro nello spazio dell’uscio in compagnia del coltello tenendolo stretto per paura di perderlo». Quello che ormai non si giustifica, dalla prospettiva dell’oggi, è l’aver considerato «neorealista» uno scrittore che mostrava una tale strafottenza nei confronti della realtà ordinaria, uno che qualsiasi cosa dicesse era fuori proporzione, maneggiatore affettuoso di oggetti taglienti, nervoso sulla linea fra un dentro e un fuori. Se vogliamo tornare a leggere i libri del passato, i libri perduti e dimenticati, dobbiamo forse dimenticare anche di più, perlomeno al principio: dimenticare il luogo, il tempo, la storia, i contenuti, la biografia, tutto. È così che potremo rimetterci al passo con Rea, dove continuamente le cose divorziano dalla normale funzione, così come divorziano tra loro il ritmo e il lessico, parole lente e gravi in uno stile veloce, personaggi afferrati per la nuca e scaraventati sulla scena senza cerimonie.
Nella «Segnorina», che pure è un racconto del dopo-sconfitta italiano, un aneddoto dell’occupazione americana, a ben guardare non c’è il paese, non c’è la guerra e tantomeno la guerra civile che si continua a combattere altrove. La Storia, qui, è un’intrusa. In queste cinque pagine il gesto decisivo è proprio il mettersi a raccontare di scatto come chi improvvisamente ha voglia di una sigaretta, accendendo una facoltà di attenzione acutissima e breve, una sorta di linguaggio Morse del corpo che si muove a intermittenze. Nella Presentazione del regista agli spettatori che apre la sua opera seconda (l’azione drammatica Le formicole rosse, aprile 1948), Rea evoca «quella stranissima lingua dell’agonia, che non siamo ancora riusciti a decifrare, e che è la somma di tutte le fatalità». Nei suoi primi racconti del dopoguerra Rea ha separato gli addendi di quella somma per istinto naturale, e poi anche per partito preso e forzatura. Nel suo caso, se proprio bisogna usarla, la parola «neorealismo» non equivale a «nuova rappresentazione della realtà» ma indica una fioritura di scoperte o invenzioni percettive rese necessarie da una realtà nuova, o meglio: appresa con sensi vergini.
Quanto alle forzature, ce n’è una già nella frase dell’uomo armato di coltello sulla soglia: uscio, parola toscana, vocabolo del buon italiano scritto. Il Rea che incomincia dimentica spesso, volontariamente, la lingua locale: e così rende meno visibili le porte e i portoni del suo paese, i portoni della percezione scardinati dal suo ariete di sfondamento.