Circa l’ascrivibilità della prima narrativa di Domenico Rea – Spaccanapoli (1947) soprattutto, ma almeno fino a Gesù, fate luce (1950) – entro quell’avventura multiforme, polifocale, apparentemente monolitica, ma fitta invece di eccezioni, che stiamo attraversando nel nome del neorealismo, dové pronunziare parole decise il diretto interessato, lui stesso, Rea in carne e ossa, in un’intervista del ’67: «Del neorealismo non ne [sic] conoscevo, mentre scrivevo, neanche l’esistenza […] del resto, la critica più attenta me ne ha sempre dato atto». – Parole, come si vede, assai cariche e, al limite, caricaturali persino nei confronti del feticcio (neorealista) del ‘parlato’: il quale riviene costante, di fatto, nell’andamento sintatticamente a sbalzi della sua prosa novellistica, nel doppio gioco, e doppio legame, fra tensione mimetica (con sciolte punte d’indiretto libero, in una scena che in parte è ancora verista) e scarto, discorsivo, coscienza ironica, distanziamento. – Parole, comunque, che non possono giungere a smontare lo specifico realista del discorso reano, se, a conferma della proverbiale inattendibilità dell’autore, voglio dire di ogni autore (o più in genere della persona astratta dell’autore, composta di ciascuno di coloro che costellano, nel loro lumeggiare puntiforme, questa galassia incoesa che si dice la ‘Letteratura’), giunge, per ironia della sorte, l’onomastica medesima: Rea come (specie di) Realtà, se ci è consentito. Tantopiù se realtà ribollente, in iperfetazione, mise en scène, esilarante abisso, fotogrammi in sequenza in un sùbito incendiarsi della celluloide.

Fuor di calembour, il tratto che veramente caratterizza l’operare dell’aedo del super–reale di «Nofi» (località con attinenza autobiografica e in parte immaginaria, il cui nome deriva dalla contrazione della Nocera Inferiore natìa), quel tratto mai da lui disconosciuto, è quello d’una pratica elettiva, dichiaratamente, del reale. E ciò, accadendo fin dal tempo prematuro e precocissimo della sua formazione autodidatta.  – In un quaderno del 1939, e precisamente addì 31 gennaio, lo scrittore, allora nemmeno diciottenne, annota: «la fantasia […] non è che la figlia direttissima della realtà». Un appunto che (come notato dal riscopritore, Butcher) si riverbera, molti anni più tardi, nell’epigrafe del Fondaco nudo (1985), tratta da Sergej Aksanov: «Io non possiedo la libera creatività. Posso scrivere soltanto stando saldamente appoggiato alla realtà»; esso, al momento, sembra potersi ascrivere a un diffuso, forse generico, sentire proto-neorealista, se proviamo a metterlo per così dire in asse (e precisarlo, semmai) con quanto solo due anni più tardi, sulla rivista «Cinema» (n.127, 10 ottobre 1941), in un celebre saggio su Verga e il cinema, Giuseppe De Santis e Mario Alicata scrivevano in favore di un realismo visto «non come passivo ossequio alla verità obbiettiva, ma come forza creatrice, nella fantasia, d’una ‘storia’ di eventi e di persone», e, in quanto tale, «eterna misura di ogni espressione narrativa».

 

Eppure, nello stesso ’39 di quella sua nota, al capo opposto della medesima annata (18 dicembre), il giovanissimo Rea andrà a specificare, ancora in sede di appunto, la qualità del realismo intorno a cui aveva principiato a elaborare, cioè anzi la natura totalizzante, vorace, saturninamente assoluta, del reale sé: «Tutto nel fuoco fioco della realtà è inevitabilmente distrutto. Tutto a quel contagio s’appesta, perde vita e marcisce nella materia». È qui che, fin da subito, si prospetta la vocazione barocca (ed esistenzialista, a suo modo) d’un realismo funerario; pullulante e appestato, capace d’insediarsi in uno spazio novellistico dalle sfumature decameroniane (Boccaccio sarà autore di riferimento per Rea, come esplicitato dal saggio che questi gli dedicherà, inizialmente come testo di conferenza, nel 1958). Un realismo insomma consapevole, poniamo, di quella sorta di origine cadaverica che presiede a ogni logica della raffigurazione, a ogni prassi rappresentativa: al modo appunto che, nel 1945, nel definire il «realismo ontologico» proprio dell’immagine foto-cinematografica, era stato postulato da André Bazin. Com’è noto, il critico-teorico cinematografico francese riscontrava, al proposito, una sorta di complesso della mummia: perché «fissare artificialmente» (con la pratica dell’imbalsamazione) «le apparenze carnali dell’essere», non può significare che «strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita», o quanto meno, seguire «l’istinto di salvare l’essere mediante le apparenze». Tanto più, nella scrittura reana, questa fissazione della viva carne, giusto sulla pasta della pagina, detiene intrinseca qualità cinetica o persino cinematica, produzione (più che riproduzione) d’un flusso di realtà attraverso la plastica e il plasma d’una lingua che passa in scorrimento veloce.

Avevamo fatto cenno (nell’explicit del nostro capitolo introduttivo) al percorso che, dalle premesse or ora enunciate, condurrà il medesimo Bazin (sulla scorta di Cesare Zavattini) a intravvedere una linfa vitale discendere dal neorealismo, proprio nell’autonomizzarsi del tempo filmico rispetto alla domanda narrativa, fino a istituire uno sguardo capace di indugiare sullo spazio anarrativo appunto, laterale o subliminale all’azione (la sfera dei dettagli non direttamente funzionali al processo del racconto): una concezione, quella già zavattiniana e subito riverberata nella teoresi di Bazin, tale da porsi ben distante, e ben al di là, delle postulazioni di De Santis e Alicata, che citavano.  – Malgrado la densità e produttività di prospettive, come questa, che furono in grado di trasportare la sfera del narrare (filmico e non solo) oltre le convenzionalità del racconto, reinventando il cinema stesso, sarà il caso adesso di fermarsi sulla viva reinvenzione del racconto (letterario) che, avvalendosi di funambolico estro cinematico non inferiore a quello teatrale di piazza, Rea operò con magica e quasi ‘irresponsabile’ naturalezza, al tempo dello strepitoso e tempestivo esordio di Spaccanapoli (datato, ricordiamolo subito, a quel fatidico 1947, anno topico del neorealismo); sporgendoci cautamente fino a Gesù, fate luce, costituito di racconti già pronti al tempo della prima raccolta, ma tanto diverso da quella nel modo della dilatazione diegetica, ovvero in un passo analitico che sembra condurre la novella su di un tempo più lungo, quasi microromanzesco: quella misura che già aveva sviluppato il racconto lungo La Figlia di Casimiro Clarus, pubblicato fin dal ’45 (nel numero di settembre della rivista «Mercurio», su segnalazione di Francesco Flora) e inserito in Spaccanapoli solo come appendice (ma poi invece in apertura, nella riedizione dell’86 per Rusconi). E intanto, converrà riportarsi, forse, a quella prospettiva che nell’Inchiesta sul neorealismo venne espressa da Enrico Falqui, e a cui già accennavamo – siamo all’altezza del 1951, quando la parabola strettamente neorealista pareva ormai conclusa, – circa il paradosso di un irrealismo (o persino di incongruo surrealismo) derivante dal dominante «bollore e gonfiore» del manifestarsi del reale, «nelle odierne narrazioni» (fino al sospetto d’un estetismo di ritorno in esse).

L’osservazione, per quanto espressa in senso generico, è tutt’altro che priva di una sottile ambivalenza, se avanzata dal critico-teorico della prosa non-narrativa, o d’arte, da lui riassunta nel genere antico e nuovo del «capitolo» nell’antologia che aveva curata nell’immediato anteguerra. Né può apparirci tutta negativa, se espressa da chi insomma, pur negli opportuni distinguo, aveva sostenuto, in sede recensoria, diversi autori della generazione neorealista, fra cui Rea appunto; questa osservazione potrà riverberarsi, in parte almeno (pur mutando radicalmente di segno), in quella famosa pagina (da noi precedentemente citata) della prefazione alla riedizione del ’64 del Sentiero dei nidi di ragno, in cui Calvino, ripercorrendo l’esperienza corale di quegli anni, interpretava il neorealismo come neoespressionismo: e se scremata di «gonfiori», enfatizzati piuttosto i «bollori», non può che riportarci allo spazio del primo, barocco novissimo, Rea, al cui Gesù, fate luce Falqui, in sede recensoria, attribuiva intanto la qualità di «caleidoscopio»  e insieme quella di scenica «ribaltata». – È quel Rea insomma, per cui Emilio Cecchi aveva coniato la enfatica definizione (irritata ma fascinata, in verità, e feconda) d’una scrittura «al lampo di magnesio». Ed è definizione, questa, capace di render conto di una capacità fotografica, concreta/astraente, da concentrarsi nel tempo-luce brevissimo di un flash, senz’altro (verrà precisata, più tardi, da Mario Pomilio nella specie di «rapidissime illuminazioni»infatti); ma che pure è capace di aprire, ancora, a una spettacolarità differente, alla qualità luministica di un tempo diverso e d’eccezione, sul limite di realismo e di irrealismo: all’esplosione d’una «gran festa di fuochi artificiali», dove il realismo (del flash) si polverizza nella vividezza d’un barocco popolare e piedigrottesco, diciamo.

Un operare eccentrico, insomma, quello del Rea: è in questo, che, per paradosso, esso ci pare apertamente ascrivibile all’esperienza neorealista – la quale infatti, più che come movimento, si caratterizzerà come somme di derive e pulsioni centrifughe (come abbiamo avuto modo di precisare nella nostra sezione introduttiva). Una scrittura-di-realtà, quella del primo Rea, ben capace di coniugare fulmineamente, senza sforzo, e senza contraddizione apparente, un’ispirazione ‘diretta’, istintiva e aletteraria – atta a scrutare con penetrazione rara entro le pieghe più vertiginose della ‘bassa’ popolarità vulcanica ossia ‘la plebe’ (per lui tema e problema costante), – alle conturbanti concretezze di una stilizzazione iperletteraria e neo-barocca appunto, per dar vita a una lingua insieme materica e straniata, non priva di taglienti frange di lucida discorsività semi-saggistica, ai limiti dell’illuministico (si pensi all’Interregno, nella prima raccolta;  e, nella seconda, a Breve storia del contrabbando). E capace di dardeggiare così, questa scrittura, la propria stessa fulmineità istintiva, in grado di naturalizzare a fondo la lingua e portarla per così dire sulla strada, tra le medesime volute d’un dire fastoso e ondeggiante, ai limiti della festa in piazza, nello scoppiettìo dei suoi effetti strabilianti.

In Rea, anzi, la tensione barocca è una forma istintiva, una specie di naturalezza. È che, forse, anche al barocco (al pari del «realismo» a cui si riferiva Bazin) pertiene una ‘ontologia’, e una qualità paradossalmente naturale; è questa la coazione stessa al movimento, e alla produzione della sua immagine. Ossia quel fenomeno originario, dell’espressione del movimento e della sua scrittura, che Ejzenštejn riconosceva ancor prima dell’avvento della tecnologia cinematografica (capace di inscrivere il movimento su una pellicola): e che fa sì che un testo moltiplichi le proprie linee interne, per consistere della tensione di diversi tempi e movimenti entro una medesima unità, spezzata e molteplice e labirintica. Barocca, a Napoli, è infatti la stessa scenografia cittadina, urbanistica architettonica e ancor prima, umana: la plebe, eternata nei presepi, e le sue ‘scenate’ e sceneggiature, naturalmente. Alle rutilanti scritture del barocco napoletano, da Rea predilette (a partire dal Cortese e dal Basile), fa da presupposto Boccaccio. Anzi, un particolare Boccaccio, come abbiamo visto: quello del periodo napoletano.

 

L’estro indisciplinato e incontenibile del Rea degli anni neorealisti, s’incanala nell’ottica d’una scrittura che sarà sì determinata da «stile conciso, icastico, sillogistico», come dichiarato sulla bandella di Spaccanapoli: ma ricusando, però, i modelli ormai acquisiti di quella concisione – in particolare Hemingway, dal cui Addio alle armi (tanto decisivo per i narratori della sua generazione) Rea aveva dichiarato, in una nota del 5 agosto del ’46, di discostarsi per via di «quel fraseggiare di dieci parole», interpretandolo come «uno squilibrio tra vecchio, antico, retorico e nuovo-novissimo».

La concisione del primissimo Rea (poi temperata, progressivamente, e riarticolata non senza qualche deriva di prolissità, già nella seconda raccolta) nascerà, di fatto, su di un segno diversamente strabordante, coordinativo e accumulatorio, comicizzato e (pur lucidamente) barocco: quella «sintassi paratattica delle parti descrittive» con cui Maria Corti cercava di render conto della qualità di stile enunciato nella bandella di cui sopra. Una danza sincopata dalla sintassi e dalla lingua, a concentrarsi tutta nel cerchio magico della temporalità interna alla novella: e che inizierà a sgranarsi (lo accennavamo) nei racconti della raccolta successiva, ove a dispiegarsi è più una pulsione diremmo analitico-descrittoria, ai limiti del panottico, che non quella bruciante immediatezza della scrittura dell’esordio – se si esclude, certo, la spettacolarizzante verve di Una scenata napoletana, chiave e margine di Gesù, fate luce; un racconto in cui la scrittura sembra guardare ancor più al cinema o all’animazione (con effetti, addirittura, disneyani), che alla commedia dell’arte o al teatro di varietà: per quanto, poi, la vocazione teatrale vi sia chiaramente dispiegata, tramite un uso aperto di didascalie assimilate al testo.

Quanto alla caratterizzante marca neorealista d’una predominanza del parlato, tradotto qui nella polifonica, sincopata sonorità, «plebea» e rumoristica, delle lingue dei vicoli: in Rea si tratterà, certo, di quella sorta di discesa o sia catabasi «nel concreto-sensibile della vita quotidiana e aneddotica», cioè della sua parola, che Pasolini aveva notato in quella narrativa (scrivendo sull’«Ulisse» dell’autunno-inverno 1956), eppure, alla discesa in tali inferi, sovrintende un esprit tutt’altro che mimetico. Essa anzi (noterà ancora Pasolini) non sembra mai perseguita fino in fondo: indugia su una gestualità «icastica», bruciandosi in essa prima di giungere ad affondare ossia ad attingere appieno alla «cultura inferiore» e alla sua lingua, il dialetto. Perché, «su questa strada, ad un certo momento, Rea si ferma e risale», concludeva Pasolini. Dal basso (sub-letterario o antiletterario), insomma, il tragitto in ascesa verso il letterario alto; nella consapevolezza, infallibile ancorché non enunciata, che il nodo d’uno scrivere realista (e, sia pure, neo-realista), non potesse che essere intrinsecamente, e sempre, letterario: ovvero che (a dirla col Falqui del ’51, denunciate aporie neorealiste, di cui sopra) «la letteratura non si supera che possedendola e dominandola».

La bascula inferiore/superiore, dagli inferi (di lingua popolare) all’empireo (della letterarietà), garantisce una virtualità ironica a specchio, quasi double face: dell’una lingua nei confronti dell’altra, reversibilmente. E Maria Corti riprenderà infatti il giudizio pasoliniano, nell’affermare che «l’originalità di Rea sta in quella risalita» dal basso all’alto, dal parlato al letterario; e individuerà contaminazioni di segno perlopiù barocco ed espressivistico a quel «parlato locale a lui contemporaneo»: verso la tradizione alta ma pure extravagante (anticlassica) del «parlato scritto di illustri modelli partenopei come il Basile, l’Imbriani» e infine, soprattutto, «i Canovacci del teatro dell’arte di Pulcinella», questi ultimi conosciuti sotto l’egida già avanguardista di Anton Giulio Bragaglia, dei Canovacci curatore (Rea lo citerà espressamente, nel saggio del ’68 su Pulcinella, quale «scrittore ed erudito della letteratura pulcinellesca»).

Un ruolo di primissimo piano sembrano occupare questi canovacci, in Rea; e per la precisione, nella dominante della commedia all’improvviso, ossia a braccio. Essi offrono infatti il modello di un’opera intessuta di vicende ispirate alla realtà quotidiana (che nell’origine s’interpolavano a numeri acrobatici, danze, canti…), entro quel nesso, che è prettamente secentesco, per cui va ad evolversi l’arte dell’attore di piazza, e, da giocoliere di strada, saltatore di corda o buffone di corte, prende a esibirsi all’interno di trame da agire sul vivo, nell’estemporanea ruvidezza d’una improvvisazione; questa vocazione precipiterà, nel modo più esplicito e formidabile, nella Scenata napolitana di Gesù, fate luce, di cui si diceva poc’anzi.

 

Del resto, pare quanto mai significativo, che per Rea una radice teatrale (o teatralizzante) sia detenuta dal linguaggio, se questo in particolare può depositarsi in concerto di scrittura sopra la vibratile superficie della carta. Il vocabolario nel suo insieme, sembra irrompere come un intiero teatro, se i suoi lemmi vi appaiono come altrettanti attori che tagliano la scena deserta di una lingua da affollare; si tratta di quella «brama di saper tutto», la smania di «arrivare a tutto» (e tutto poter nominare) attraverso l’apprendimento del vocabolario, a partire dalla «recitazione dell’alfabeto», di cui lo scrittore giovanissimo scriveva in un appunto del 14 marzo del 1939. E sono parole, queste, che (regredendo al tempo dell’apprendimento stesso dell’alfabeto) saranno destinate a trovare uno sviluppo, anni più tardi, in Quel che vide Cummeo, lì dove si evocherà la pratica di un uso ludico (prima che didattico o linguistico) del colorato sillabario con la possibilità di ‘creare’ realtà, con le parole, e non registrare soltanto (un realtà predefinita dell’esterno): «Fu un gioco per lui superare le aste e poi le vocali e le lettere. Le aveva disegnate tante volte sul terreno del cortile o scolpite col coltello sul legno del tavolo, perché prima che lettere erano state forme fantastiche e libere e senza scopo come la sua infanzia»: e così, visione e lingua sono i due lati d’una medesima tensione espressionista.

Linee e libere e incise sono difatti quelle predilette da Rea, tantopiù nel tempo neorealista dell’esordio; una sintassi di folgorazioni incastonate le une alle altre; le quali, lungi dall’aprirci alla oggettivante chiarificazione, ci espongono a una luce d’incertezza: l’oggettività del racconto si obnubila di tanta evidenza, le vicende restano aperte o invece inesplicate (tranches di stati limite di vita, come in Pam! Pam!), articolandosi per via di contratture, ellissi, o invece nell’emergere d’un più largo e imprevisto pulsare saggistico; un dispiegarsi di soluzioni diverse, di tempi e lingue eterogenee, elementi scivolanti l’uno nell’altro non meno di quanto, l’uno all’altro, siano d’attrito. – Si osserva, in questo, un oscillare, quasi un doppio passo (tanto più sbilanciato nel corso dell’itinerario reano) tra l’immediatezza primaria (neorealista o scenica) della scrittura, capace di esporre il reale, come a rilievo, dalla stessa tramatura della pagina; e il ripristino invece, sempre incombente, delle funzioni e cornici d’una più articolata finzione rappresentativa e descrittiva, fino ai confini del romanzesco-borghese (modalità sempre presente nella pervasività del registro verbale durativo-narrativo, l’imperfetto). È una divaricazione, lo accennavamo, specialmente riscontrabile quando mettiamo a contatto le due prime raccolte. Dal lato, più originalmente neorealista, d’una immediatezza produttiva (di effetti di realtà) e non imitativa (del reale stesso), è di certo la pulsione più anarchica all’inadempiuto, all’aperto, al taglio, all’ellissi che si traduce persino in enigma: all’incompiutezza, infine, come promessa (o possibilità) cognitiva, la quale si potenzia della radicale non-chiusura del racconto. Ed è quanto brucia per lo più nelle zone più vulcaniche di Spaccanapoli, o mirabilmente nella topica Scenata della seconda raccolta.

 

Qui, in una escursione, spesso fino al puro carosello, di toni e stili senza organicità apparente, ci vengono offerte forme tutte caleidoscopiche, mobili, frammentarie, tali da profondamente variare un racconto dall’altro. A esse è quasi regolarmente anteposta una breve soglia paratestuale (l’epigrafe, da Virgilio a Ovidio, da Cellini a Machiavelli, da Boccaccio a un Basile mediato da Croce, e via seguendo – regolarmente cólta fino all’esemplarità), a darsi icastica solo apparentemente. E sono punti d’accesso i quali, lungi dal lanciare il nucleo d’un tema che sarà narrativamente svolto o invece il nocciolo ultimo della sua moralità, sembrano, piuttosto, voler capricciosamente depistare il senso della lettura, già a monte dello svolgimento narrativo: o stringere il lettore a focalizzarsi su una chiave la cui, diciamo, serratura, egli dovrà rintracciare nel tragitto della sua lettura, e non sempre con immediato successo; fino, quasi, all’indovinello. Mossa del cavallo, questa, di un narratore che complica e occulta almeno quanto il suo realismo non riveli; sarà soprattutto nelle epigrafi di Gesù fate luce che potrà esporsi, in posizione tanto sporgente e dichiarativa, la cultura “libresca” artificiale e naturalizzante insieme – sfrontata, senza complessi, esibizionista persino – dell’onnivoro autodidatta di talento (di cui ebbe a dire l’amico Pomilio, Mario) – in un gioco di specchi e di sipari reso ancor più stratificato dal ricorrere delle dediche nei singoli racconti, tutte o quasi a favore di scrittori, artisti, intellettuali della sua generazione.

Dal suo capo, la lingua, lungi dal darsi come prettamente mimetica (anche nelle isole dialettali, o nelle derive di parlato che il narratore pronunzia), è piuttosto quella – a dirla, ancora, con Pasolini e poi con Corti – della «risalita», dal basso all’alto: in un alto che serba la libertà anarchica, l’immediatezza comico-realistica del basso; ove il livello inferiore, dialettale, solitamente non è attinto se non in una zona protetta e come incorniciata: sotto una luce mai prettamente empatica o mimetica, ove il parlato stesso, pur vividissimo, appare tradotto tramite il lucido filtro d’una coscienza che si espone come assai accorta letterariamente (ove la letteratura è posseduta, però, come tempo naturale, o sia animale istinto). La posizione della voce resta comunque incerta: quasi che la prassi della lingua tendenzialmente più ‘alta’ (assunta tutta insieme, voracemente, tramite una sorta di bulimia lessicologica, lo abbiamo visto) costituisse qualcosa come una corazza, a non ricadere in quel sostrato (ovvero, il basso) che pure si sente germinale, pullulante e quasi ostetricamente nativo; misura di contenimento e di chiarezza e però mai di astratta politesse: al massimo, di anarchica ironia. E questo tanto più in quegli ampi racconti dal respiro saggistico, di cui dicevamo (specie Breve storia del contrabbando).

 

Eppure, non meno della qualità del risalire, sarà da considerare quella del ridiscendere: nell’«orifizio dell’inferno», sul cui orlo si svolge il balletto di Pulcinella (a cui Rea nel ’68 dedicherà quel saggio che citavamo e su cui dovremo tornare più avanti); danza satanica e burlesca, non così dissimile da quella che il protagonista di Mazza e panelle, Nicola, eseguiva sull’orlo del pozzo, davanti agli occhi del padre: «Il mio sguardo era animatissimo, e il recitato trascendeva il reale da insospettire non solo i compagni – che già sembrava chiamassero il mio nome come non potessi più udirli – ma anche me stesso. Onde, per pochi attimi, per prendervi gusto, mi adoperai nel conseguire l’ammirazione. E a un motivo di gloria – che le gesta medesime riscotevano dal mio essere – mi diedi a piroettare, a guisa di fuso che gira su di sé, un balletto che portava i miei piedi a commettere continui falsi, donde mi salvava la sospensione di tutte le cose, che si udivano vivere in quel loro istantaneo trattenere la vita e il respiro».

Questa forma di ridiscesa si dà marcatamente teatralizzata, dunque: e il teatro vi risiede tutto nell’articolarsi della lingua o meglio nel suono delle parole, da agire semmai sulla scena parossistica del rumore recitato e verissimo d’una realtà tutta sceneggiata (dove la strada, il suo popolo, è la platea, che quella scena racchiude e conforma); così come vediamo avvenire nella succitata Scenata napolitana (e noteremo, ormai, il vezzo arcaizzante e insieme semidialettale che risiede in quella determinazione di luogo), tra il formarsi della platea naturale («La gente cominciò a farsi all’imbocco del cortile», ecc.) e gli effetti sonori, acusmatici, che attraversano e costruiscono anzi quella scena («Si sentiva il rumore da fuori, dove le parole si frantumavano sul lastrico del cortile, rimbalzando in tutte le direzioni»).

Ancor meglio si esplicita, certo, tanto estro scenico, nell’operina buffa esplicitamente concepita per il teatro, la quale, uscita stampa nel ’48, si pone, temporalmente, come cerniera fra i due poli del dittico novellistico cui ci stiamo riferendo. Parliamo di quella «pazzerelleria teatrale» (come ebbe a dire amichevolmente Giansiro Ferrata) intitolata Le formicole rosse: sorta di teatralizzazione del racconto Il bocciuolo, che sarà poi pubblicato in Gesù, fate luce; e in particolare, nel suo accesso dichiarativo-prefatorio (la Presentazione del regista agli spettatori), ove leggiamo righe che ben porremmo a margine di quella Scenata, a partire dal tema acusmatico con cui quella pagina si apre: «Ancora oggi, chi a Napoli si trova a imbattersi in una zuffa, a primo acchito pensa che i protagonisti stiano divertendosi in uno strano ballo, effettivamente bello a vedersi: per tutti quelli scialli colorati delle donne, basette degli uomini, e altissimi gridi che volano come tanti uccelli sulle loro teste. E a un primo acchito il casuale spettatore si sfrega le mani per il piacere e pacificamente si mette da un canto ad assistere. Ma, dopo pochi minuti, e, a volte, dopo alcuni attimi, al posto della quadriglia subentra un’aria di deserto; i protagonisti si sono squagliati; in terra c’è del sangue; e nella strada altre grida, ma di lamento, di strazio, o di madri, o di spose, o di povera gente che scaccia l’idea della morte invadendo la propria testa di gridi».

Nel saggio sopra Le due Napoli, del resto, Rea avrebbe scritto di un «popolo di pagliacci [che] sfrutta a freddo la pagliacceria, non avendo altro da vendere»; la scena, o sceneggiata, a cui di continuo si assiste – teatro naturale – in quella città, impone una continua dimostrazione d’una sorta di paradosso dell’autore, alla stregua di quello diderotiano: la necessità quasi virtuosistica di mantenere il sangue freddo, per studiare ed esprimere le passioni che la parte (la scena)impone.

Eppure, la tensione teatralizzante, su cui s’inarca la prima narrativa di Rea, sembra già affacciarsi in una giovanilissima già quasi bachtiniana riflessione sul Manzoni (datata 29 dicembre 1938, dai Diari custoditi presso il Fondo manoscritti, a Pavia); qui, lo scrittore dichiara di poter «considerare un poeta, un romanziere» solo quando questi «è capace di grande spirito immedesimativo e personificato». E in tal modo motivando il postulato: «Il Romanziere per raggiungere l’arte deve raggiungere l’immedesimazione a tal punto che un bel giorno dev’essere lui medesimo a meravigliarsi di trovarsi nel mondo presente»(in un moto quasi stanislavskijano); e poi: «L’anima di uno scrittore se vuole raggiungere l’arte dev’essere nata a impersonare le parti che Dio affida direttamente a differenti uomini»      – dove mimetismo (e la mimesi) si avverano al confine della mimica, e della pura scena. Oltre che nelle strade, una tensione scenica è insomma attiva, per questo scrittore, nel Canone letterario medesimo, e ne è forse la condizione; è in questo senso che Rea potrà parlare della vocazione teatrale in Boccaccio, e nella specie in quello napoletano, se questi (come leggiamo nel saggio Boccaccio a Napoli, del 1958) «prende parte allo spettacolo» che di fatto è la città intera di Napoli, «ora da comparsa, ora da protagonista».

 

Poniamo, allora, quale costante del dire reano, tale condizione del «trascendimento del reale ad opera del recitato» (enunciato in un passaggio illuminante di Mazza e panelle, che citavamo); fino a quello «scriver recitando» di cui parlava Carlo Muscetta nel ’53, fortemente gestuale: denso della «resa realistica e insieme deformante della teatralità insita nel parlato regionale campano» su cui insisterà Maria Corti, fino alla deriva della «commedia dell’arte nella versione pulcinellesca» (e opportunamente la Corti porrà attenzione «alla resa scritta della teatralità», nella prima narrativa reana, ossia alla capacità del teatro di divenire scrittura: con la sua «ridondanza a livello sintattico», l’abbondanza di «forme esclamative o interrogative retoriche», fino a uno strano effetto di «decelerazione» specie nella lettura). Ma già Flora, introduttore di Gesù, fate luce (nella prima edizione del 1950), e da anni corrispondente col giovane Rea, notava nella narrativa di lui un tratto «ostentato […] burattinesco […] con gesti di maschera». Dal suo canto, Cecchi, scrivendo su «L’Europeo» del 24 dicembre 1950 dello stesso Gesù, pur lodando la nuova temperanza o «cautela» rispetto al volume d’esordio, aveva dichiarato che «converrebbe che il Rea si tenesse sempre più in disparte nel racconto; dove invece lo sentiamo di continuo riaffacciarsi e intervenire, come una specie petulante di folletto o mazzamuriello. E si diverte a spinteggiarlo, irritarlo, «cacciargli il pepe sotto la coda»: emergendone, diremmo, come quella sorta di quasi istrionico personaggio-autore , che Rea medesimo auspicava di riscontrare nella figura del Romanziere.

Peraltro, chi abbia incontrato o vissuto Rea lui in persona, ne conserva, di fatto, viva, la sensazione d’un’intima teatralità (relativa al suo essere non meno che al suo scrivere). È Raffaele La Capria che in un’intervista rilasciata a John Butcher, testimonia di quanto quello scrittore «facesse teatro, si rappresentasse». Ma più di tutto soccorre, qui, una precoce testimonianza dell’autore medesimo, in una rutilante lettera del 1940, firmata col nome d’arte di Domenico Votié, con cui Rea si autopresentava, a offrirsi (probabilmente a un impresario) quale  interprete di una rappresentazione teatrale. Ascoltiamo allora la sua voce: «Intimamente è in me il desiderio di essere attore, artista di vita. […] Ecco io potrei rappresentarvi la nuova commedia: tutta luci, ombre fittissime, tutta riso, pianto amarissimo; io posso ornare sulla vostra tela di cristallo fanciulle livide di peccato, e donne cinte di collane di lacrime»…

Inversamente, è l’artista-attore a trovarsi invasato, lui, dalle voci della scena (sei, le voci, ben librescamente), come per quello «spirito immedesimativo e personificativo» che attribuiva ai grandi del narrare (innanzitutto al Manzoni); ma da esso pervaso e invaso: «In una bella sera, milanese e settembrina, in una sola notte scrissi i primi tre atti, di getto, e volevo dire, di lava […]. Dopo qualche ora mi avvidi che andavo componendo non una novella – mio ideale artistico – ma quasi stenoscrivevo – e dovetti farlo in diversi momenti – le parole sempre più personali di sei voci, che, ben presto, si dichiararono sei distinti uomini nel più profondo significato della parola». Si tratta di uno scritto, databile probabilmente al ’48 (fra quelli custoditi presso il Fondo di Pavia), assai illuminante circa quel primario illusionismo istrionesco ma insieme, e irrefrenabilmente, creaturale (quella coscienza di «aver lavorato più d’illusione che di sostanza», di cui disse Cecchi); ossia l’irruzione del teatro, o ancor meglio, del coup de théatre, nella vita quotidiana, il quale se pare accostabile alla poetica zavattiniana dell’evento, al tempo stesso ne costituisce il rovescio speculare (per la resa, piuttosto, acutizzante fino all’artificio allo scoppio imbarocchente della scena della vita in sé). «Buttar all’aria il giuoco, prima d’aver finito di distribuire le carte», nell’efficace formula cecchiana. Oppure, in cascata di definizioni a emulare (intensificando) la pirotecnica reana, il «vulcanismo, fuoco, fosforo, sangue, estro, dinamismo, truculenza, becerismo, caricatura», di cui scrisse Flora: e poi, «beffa talvolta elusiva, buffoneria con sberleffi e sghignazzate, arruffio, eccesso, pittoricismo rutilante, pirotecnia, lampi di magnesio, sfarfallio, mobilità, fumisteria, barocchismo»: tutte categorie da commedia dell’arte o meglio ancora da festa di piazza. Ma  forse, è appunto, l’accostamento alla poetica zavattiniana dell’evento, una prospettiva più feconda, per la comprensione del primo Rea; qui, il dato, anarchicamente sfuggente all’inquadrarsi entro alcuna regola, si rende allo stato puro (sulla pagina), capace di bruciarsi all’immediato. Dove, naturalmente per immediatezza intenderemmo, anche, abbattimento delle mediazioni, dei diaframmi: un porsi sullo stesso piano del rappresentato – il quale sembra anzi, più che rappresentarsi, prodursi direttamente, presentarsi al limite di persona (come i personaggi di cui in quell’appunto, citato or ora, del ’48).

 

Cecchi, peraltro, all’uscita di Spaccanapoli, aveva detto, per la linea emergente della letteratura italiana del secondo dopoguerra, dell’innestarsi su un «neorealismo d’origine americana»(non tanto quello di un Hemingway, quanto dei suoi «volgarizzatori», per il connubio di «sfrenamento ed arbitrio», stilistico e grammaticale), dei tratti d’una «nuova scrittura italiana, liricizzante immaginifica ed anarchica»: quella per cui egli individua, quale ultimo rappresentante (erede dei Barilli, Aniante, Gallian), appunto il vesuviano Rea, con questa sua «scrittura visionaria, tutta luccichii, fiammate e fumacchi». – Si tratta di quello scrivere «al lampo di magnesio», che abbiamo già dovuto evocare. Immagine in realtà calzantissima, se in essa si attrae tanto la fumisteria della «gran festa di fuochi artificiali», quanto il tempo-luce del flash, che incendia la superficie, per fissare l’immagine, e subito, nell’estinguersi, la raggela. Concludeva Cecchi il suo giudizio su Rea col notare la «vuota e immobile tristezza» che si rivela «in fondo a questa beffa torrenziale», al termine del suo «sfarfallìo»: sì che, nel suo giudizio, «si direbbe che ogni tratto sia incancellabile e quando poi s’è finito, non si ricorda quasi più niente». Ma è significativo che, in una testimonianza epistolare, fosse in prima battuta Rea medesimo a riconoscere sullo stesso palcoscenico del suo teatro – che è poi la Napoli popolare e barocca – l’agire di un siffatto movimento dicotomico: ché, a Napoli, «in un attimo» si può essere «illuminati o oscurati»; per un’ontologia del chiuso/aperto che pertiene allo spazio del vicolo, e in particolare a quello del vicolo dei vicoli, il quale tutto divide e ibrida: vale a dire, lo stratificato cronotopo ‘Spaccanapoli’ in sé (nel suo interconnettersi di rapporti spaziali e temporali, e poi linguistici storici e culturali, naturalmente).

Per quanto imposto dall’editore, né del tutto legittimato, data l’ambientazione in gran parte nocerina o nofiana della novellistica reana, il toponomastico titolo della prima raccolta (Spaccanapoli, chi non lo sapesse, è la fenditura madre, arteria e insieme ferita centrale di quella città-organismo) rispecchia una precisa ontologia, posta alla base della forma stessa del testo. La parola del vicolo, da un lato: e dall’altro, la spazialità stessa dei vicoli – insieme corale e frammentaria, labirintica e organica, e perlopiù viscerale ma nella sospensione ironica di uno sguardo sempre attivo, di un narratore al tempo stesso corale e ineffabilmente dotato di pulcinellesca pivetta. È per questo, anche, che il titolo è già un manifesto: programma d’una discesa iniziatica nei brulicanti inferni d’una popolarità, ‘spaccata’ e aperta abissalmente come una ferita, come un sesso: ed è forse fin dalla suggestione di questo titolo-strada, che l’esordio reano poté divenire opera esemplare suo malgrado, dell’esperienza neorealista tutta. – Peraltro, lo spazio-tempo del vicolo, pur velocizzato cinematicamente e pluriprospettico in arditi montaggi, specie nei racconti di quel libro, detiene una spettacolarità di carattere più arcaico che non il cinema. Se Rea dichiarava (in intervista) di esser stato da ragazzo «un fervente seguace del cinema muto», è probabilmente perché, di quel cinema, lo affascinava la gestualità enfatica, teatrale, come stampata sulla superficie dello schermo. Di fatto, al cinema egli preferirà l’Opera dei Pupi (quella stessa su cui si incentra un topico esordio del Paisà rosselliniano); così scrive in un appunto del ’45, il 23 maggio per la precisione (pochi anni prima che a questa forma di spettacolo egli dedicasse un articolo specifico, uscito con vari titoli e su varie testate, nel corso del ’49): «le storie dei Paladini e di altri Guerrieri […] furono il primo pane, una prima rozza fonte di cultura e un trampolino per tuffarmi nel pelago delle illusioni», affascinato, com’egli era, da loro «dialogato a modi arcaici»; ma soprattutto, poi, dalla capacità di suscitare immedesimazione negli spettacoli («Il Gano di Don Alfredo Farina […] mosse così gravemente lo sdegno di un carrettiere […] da essere sparato e colpito da tre proiettili»). In questa forma di spettacolo, dominato dai «gesti legati e duri dei pupi», l’irrealismo suscitato dall’apparato scenico loro proprio (ferri in testa, o corde, o spade legate alla mano…) viene cancellato di colpo «dal precedente realismo della storia e dalla forza dell’immaginazione degli spettatori»(quest’ultima citazione, è dall’articolo del ’49).

Di questo spazio, l’eroe è, per Rea, il personaggio, tutto marionettesco, di Pulcinella; o, meglio, il Pulcinella ‘universale’, il ‘seicentesco e [poi] settecentesco’ (di cui lo scrittore dirà nel saggio del 1968): quello compreso nel suo spazio fenomenologico di una «mimica e magia», diremmo della vita quotidiana, del tutto «sprovvisto di pensiero». Personaggio da Rea vissuto in una strana ottica di identificazione e repulsione insieme, e attraverso gli occhi eventualmente di Giorgio Arcoleo, siculo giurisperito già allievo di De Santis, il quale non solo aveva riconosciuto nella teatralità di quel personaggio la compresenza, quasi trascendentale, di spontaneità e di menzogna («nella frase il cicaleccio e la parafrasi, nel dialogo l’equivoco, nelle azioni il chiasso, dappertutto la sciocchezza spontanea e mentita»… e poi: «la [sua] vita [è] fuori della coscienza, nella forma»), ma ne individuava la ‘sfera’ dell’azione e del mito in una serie di elementi come «l’esteriorità, l’oblio di se stesso, l’accidente, il fuggitivo, il momento»: una rete di senso non troppo distante, lo vediamo, dal modo performativo della scrittura reana (né appunto dalla prospettiva ‘eventica’ zavattiniana). Per Rea, ancor più, quella pulcinellesca è «una sorta di casa stregata in cui chi entrava con qualche idea ne usciva senza o nello stato di chi non s’importa più di nulla»: che è un po’ l’effetto frastornante e stupefacente (istupidente) che ha, per i lettori, la sua narrativa primissima. Pulcinella diviene modello linguistico fondamentale, nella prospettiva reana, se questa maschera «si appropria di fonemi dialettali e li trasforma in pirotecnica, in litanie logorroiche, prevedendo a un concentrato per assurdo del carattere indigeno», o addirittura a una prefigurazione del «monologo interiore joyciano». Perché, «nel suo discorso onirico e triviale, in un’interrotta [sic!] acrobazia linguistica  e anagrammatica», Pulcinella per Rea è capace di «pianificare la vita in un blocco unico in cui presente e passato si scambiano i tempi per costituire un intrico senza nesso, motivazioni, cause ed effetti». E sarà allora in Una vampata di rossore (1959) che i due modelli di ‘acrobazia linguistica’, il pulcinellesco e lo joyciano (Rea del resto aveva amato Joyce fin da giovanissimo), sembrano a sprazzi poter incontrarsi: e il corso sintattico, dalle iniziali contratture, ellitticità fulminanti, esplosioni, acquisirà a tratti un andamento quasi streaming nell’ampiezza d’un periodare interminabile e ai limiti del falsetto, in isole poste all’interno di una modalità rappresentativa più piana e oggettiva (lontana dalle feconde intemperanze di Spaccanapoli).

Eppure, Pulcinella aderisce non meno all’interruzione, che al flusso; rivelando il proprio dire come l’“estroversione forsennata di una condizione sociale superdepressa, folgorata da una staticità secolare e cacciata in un gigantesco oscuro e afaso ventre dalla cui fermentazione sarebbe spuntato lui, danzante e parlante […] riluttante a ogni disciplina». – Pulcinella diviene così il campione di un antipsicologismo (o apsicologismo), avverso ai principi della buona narrazione borghese, e ciò fino all’800 escluso, quando «corse il rischio di perdere la sua agilità di uccello, di trasformarsi in un personaggio».

Ed è in questa lettura datata 1968, che Rea sembra chiarire nel modo più acuto e puntuale, allora, le ragioni e le intemperanze del suo esordio in carnevalizzata frenetica luce neorealista. – Pulcinellesco, barocco, o magari danzante addirittura, il magnetismo di questa scrittura fumista del reale, che è la vergine e selvaggia forza della prima narrativa espressa da un «autodidatta di talento», serba una chiara marca ‘parasurrealista’, diciamo. Magari (come ventilato da Cecchi, o ancora da Falqui), l’impazzita scheggia di un prosartismo estremizzante, fino alla spezzatura; e alla genealogia evocata a tal riguardo (a partire da Bruno Barilli), nello stabilire una linea per l’espressivismo «al lampo di magnesio», saranno forse da aggiungere nomi come quello del Landolfi novellista (a Rea quasi corregionale), e anzi soprattutto del primissimo, quello poniamo, frenetico-luciferino, di Maria Giuseppa, alla cui irrequietezza ai limiti della sessuomania tante pagine di Spaccanapoli sembrano avvicinarsi. O come quello del Savinio fino a Tragedia dell’infanzia (a cui giustapporremmo I capricci della febbre di Spaccanapoli), specie per la struttura episodica, frammentaria se non frammentista (in Savinio, questa si rilanciava di tratto in tratto per costituire una sorta di continuum segmentato – un mosaico i cui tasselli esplosi tendessero tutti a una sola gravità). Ma anche, infine, come quello dello Zavattini narratore: le cui origini eccentricamente surrealiste appaiono persistere fino alla produzione più tarda, esplosivamente sposandosi alla sua tensione verso un realismo radicale.

 

Ma torniamo al pattern partenopeo, di cui Pulcinella è il massimo campione. Andrà detto che Fate bene alle anime del Purgatorio, il libro in cui, in prima edizione nel ’73 (poi ampliata nel ’77, e con l’aggiunta del sottotitolo Illuminazioni napoletane), si raccoglieranno i suoi saggi e fra questi il pulcinellesco, questo libro risulterà (espresso nel pieno d’una crisi della creatività, prima di ripartire, quasi un decennio più tardi, con Il fondaco nudo) un ritorno, o riordino, di motivi e figure, tutte napoletane, che avevano accompagnato il suo scrivere, e lo avevano animato: Montevergine (la strada, la fiera), la canzone napoletana, la plebe nell’«eccezione» dei mendicanti, oltre alla maschera di cui abbiamo detto or ora; e ancora, modelli narrativi in qualche modo abnormi, come Mastriani, e quel Boccaccio ‘napoletano’ che citavamo.

È infatti un saggio scritto fra il ’49 e il ’51, all’altezza di Gesù fate luce, dedicato a Napoli stessa ovvero alla sua dicotomia costante (Le due Napoli), è qui che Rea sembra esprimere uno scetticismo radicale riguardo la possibilità di una visione adeguata della realtà. E questo, in particolare, nel considerarne il riflesso fotografico. Il corpo di Napoli sembra divenire qui il paradigma del realismo e, inevitabilmente, delle difficoltà del suo realizzarsi.

È che per Rea, tra la «Napoli vera» e quella letteraria, «c’è la medesima differenza che corre tra un oggetto fotografico e l’oggetto in sé». Nel senso, che il plusvalore di una estetizzazione, anche casuale e involontaria, data da ritagliarsi e reinquadrarsi del reale nello spazio fermo e bidimensionale del fotogramma, è distorcente rispetto alla verità cruda che risiede nell’oggetto, dotato invece di «tre indubitabili dimensioni». Ecco: «nella fotografia anche le macchie possono diventare piacevoli. Anche i particolari più sinistri – i cenci che sembrano bandire – acquistano un fascino: e il fascino porta a una deviazione della realtà, che si ritrova integra nell’oggetto nudo e crudo, senza il travaso fotografico, ossia senza letteratura».

Così, rimane aperto il problema di risalire dall’«oggetto fotografato» (estetizzato, appunto), all’«oggetto in sé», nella sua crudezza inalienabile; è questa la portante tensione a pensare una scrittura capace di resistere all’estetica (o a meglio dire all’estetismo): la tensione che anima, nel suo nocciolo ultimo, ogni neorealismo autentico.

Il giudizio reano sull’immagine fotografica, espresso in clima appena post-neorealista, di fatto allude però a una inattuabilità effettiva, e non-veridicità profonda, di qualsiasi realismo integrale, finanche di quello fotografico; e al grado di finzione che ammanta e inficia ogni visione del reale, a maggior ragione quella letteraria. Quando all’opzione fotografica, e alla critica dell’immagine (e della sua società), potremmo provare a porre la prospettiva reana a contatto con zone del pensiero critico all’altezza del secondo dopoguerra, specie quelle francofortesi. Lontanissimo, però, lo scrittore, dall’attribuire alla tecnica fotografica (che fosse, questa, presa in sé, o invece fosse applicata alla rappresentazione di cui è capace la letteratura), quella valenza in fondo salvifica che le veniva assegnata dal maggior teorico della fotografia di quella scuola: Sigmund Kracauer, il quale avrebbe riconosciuto alla fotografia una naturalezza nell’«affinità con la realtà immediata priva d’artifici», e valorizzato l’incombere dell’elemento fortuito («cibo naturale dell’istantanea»), in favore di una resa della «realtà immediata».

Quella realtà che un investigatore del cuore dell’immagine come Kracauer, nel tempo azzerato/ripartito del secondo dopoguerra, vedeva irrompere senza orpelli per il solo uso di una tecnologia di restituzione (l’ottica fotografica, appunto), per Rea era già un orpello. Travasare altrove (sulla nobilitante grana di un supporto, la superficie di un fotogramma – e a maggior ragione, nell’impasto cartaceo della letteratura, e della sua letterarietà) un frammento di reale, sottraendo alla sua tridimensionalità, vuol dire, di per sé, travisarlo. E per quanto impercettibile, la distorsione procurata da una lente, può valere a cristallizzare la visione; quasi a ‘mummificare’ la vita stessa (diciamo in suggestione baziniana), facendone ‘letteratura’. Ed è questa, di fondo, l’aporia insita nel concetto di realismo, interna cioè a ogni realismo: il quale non può che escludersi a una autentica restituzione, del reale, e della sua ustoria verità. «Ma il sentimento tragico della vita, spogliato e nudo, che qui regna su tutto, come la violenza di vivere almeno una volta, perché una volta si vive, rimangono forze oscure», scrive Rea in Le due Napoli infatti: ed è così che porta la sua critica alla società dell’immagine, che è una critica alla società-letteratura.

Eppure, è solo nell’istantanea – a seguire Kracauer – che è possibile la diretta irruzione del caos, ovvero della realtà nell’indefinito di un’assenza di limiti. Assai più prossimo alla disponibilità della fotografia appare insomma l’estro di Rea, di quanto egli non sembra volere: quell’iscrizione caotica e ineluttabile del caso, che nel lampo di un flash ricorre nella narrativa brevissima di Spaccanapoli, nella sua sintassi delle più radicalmente plastiche e aperte tra i (neo) realismi di quel tempo.

Ora. È possibile ipotizzare che dal caos realizzato, realismo dell’indefinito, produttivamente fotografico (nel senso appena enunciato), di quegli esordi lampo-fumistici, al magnesio o mercuriali, abbia fatto seguito una involuzione quanto più Rea andava ad assimilarsi nelle aspettative rappresentazionali proprie delle ‘responsabilità’ narrative borghesi. E che al lampo di flash si sia sostituita una più pacata luce di scena, a illuminare non più a tagli o sprazzi, ma temperando ciò che la scrittura reana aveva proposto, alla sua irruzione, di più incontenibile inedito, e necessario. Quando insomma egli avrà assorbito il teatro popolare (e la sua gestualità, soprattutto) nelle spire della finzione; e (a parafrasare Cecchi), più che alla “gran festa di fuochi artificiali”, avrà cominciato a porsi il problema del ‘dopo’…

L’unico realismo che l’esperienza di Rea, nella sua irruzione e nel suo sviluppo (mai più all’altezza di quel suo primo tempo formidabile), ci lascia intendere possibile, è quello appunto fumistico, teatrale, barocco, e ai limiti d’uno sfrenato carnevaleggiante e pure amaro espressionismo semmai: inassimilabile dunque, al pari di Pulcinella, entro quella modalità di rappresentazione borghese (ottocentesca), sempre lì in agguato a disinnescarlo – ma regolarmente ingannata nella prima novellistica di Rea.

Un realismo di contrasti e contraddizioni, a titanicamente fronteggiare le devastazioni imposte dal reale, come in quell’appunto precocissimo, che citavamo all’inizio: “Tutto nel fuoco fioco della realtà è inevitabilmente distrutto”. E forse, l’opporsi a quel fuoco fioco e senza termine, da parte dell’istantaneità di un lampo di magnesio, è la cifra stessa della prima luce realistica reana: contro l’obiettività grigia impietosa del tempo romanzesco, contro la sua màcina, il caos immediato, e tanto più vero, dei discontinui bagliori della vita in sé.