I libri di Rea tramutano l’oggettività cronologica in un tempo perenne e fiabesco, nell’immagine «bachtiniana» di un mondo e della sua continua e (non) illusoria rinascenza e continua ripartenza fondate sulla filosofica immutabilità dei caratteri umani; ed ecco che Rea diventa il perfetto scrittore di Napoli, il campione di una tradizione letteraria alternativa al dettato razionale del Novecento di Moravia, di Pasolini, dei neorealisti: il poeta crudele dell’uomo e della parola, come lo erano stati, nel loro tempo senza tempo, altri grandi scrittori napoletani «minoritari» rispetto alla mainstream nazionale.

Domenico Rea coltivò per tutta la vita il vezzo di dichiararsi estraneo alla contemporaneità. L’equivoco di una sua filiazione dal neorealismo era stato chiarito proprio da Pasolini; e Rea ebbe sempre buon gioco nel proclamarsi un continuatore del Gran Basile napoletano, cui affiancava la tradizione toscana dal medioevo al barocco, fra Domenico Cavalca e le prediche di San Bernardino da Siena, Paolo Segneri e Daniello Bartoli, modelli a lui più consentanei e più volte citati, talora con veri calchi. Di sicuro c’era tanto di dandistico in questo rimuoversi dalla calca contemporanea ‒ e perfino, dopo lo sfolgorante momento mondadoriano degli inizi, dalle centrali della grande editoria. Gli anni di quello che viene di solito definito «silenzio» di Rea, sono gli stessi in cui risulta perfetta o quasi la dispettosa identificazione tra lo scrittore e la città: un’identificazione conseguita ai bordi del baratro temporale di un presente eterno, smemorato in quanto incorpora in sé passato e futuro. Un’identificazione, anche, intrisa di un pessimismo conservatore che in Rea non nasceva dalla sdegnosa contemplazione delle comuni miserie, ma sgorgava come un fiotto spontaneo dalla sua stessa anima popolare (plebea, avrebbe preferito chiamarla lui), dunque cinica e orgogliosamente votata al materiale, all’utile («Prufessò, è caduto Craxi». «Ah. E chi è sagliuto?»), epperò lontana, lontanissima dai rigori della ragione; un’anima bambina (fiabesca) cui piaceva abbandonarsi alla fantasia e alla passione.

Per quasi mezzo secolo Domenico Rea ha costituito insieme a Luigi Compagnone e Michele Prisco una specie di trimurti che era l’unico riconosciuto presidio letterario «napoletano». Oggi la situazione è molto diversa: i ranghi si sono infoltiti, c’è un panorama più mosso, e pare superata la lunga fase in cui a Napoli la letteratura d’invenzione era soprattutto scrittura drammaturgica. Dalla morte di Rea a oggi, in un quasi ventennio nel corso del quale anche i suoi due irriducibili compagni di strada ci hanno salutato per sempre, Napoli offre un bilancio letterario più tosto positivo. I nuovi scrittori «napoletani» hanno spesso cercato di essere scrittori senza denominazione d’origine (anche per questo meritano le virgolette). E se il tono di Compagnone pare a volte rivivere nelle pagine di Giuseppe Montesano; se la rigorosa maniera «internazionale» di Prisco, quel suo estenuato tentativo di cogliere ogni minimo ritmo della psicologia dei personaggi, quasi un Henry James vesuviano, si è trasferita in un pulviscolo di scritture che fanno dell’esercizio memoriale il loro principale obiettivo; se l’esperienza della distanza di un La Capria, napoletano di Roma, ha finito per segnare come uno degli apporti più fecondi tanta nuova narrativa italiana (penso a Erri De Luca o, in tutt’altra temperatura, a Silvio Perrella, ma non solo); Rea, al contrario, pare non avere figli, né nipoti. Questo mi fortifica nella convinzione della sua «unicità», del suo carattere fondamentalmente antiletterario (o, forse, iperletterario). La parola di Rea continua a resistere più sonora che evocativa: parola, quasi, di una indifferenza, di una sorgiva e non programmatica etnicità. A volte ci sembrava di risentirla, di afferrarne l’accento inconfondibile di tra il confuso mischiarsi delle lingue di oggi. E sappiamo che essa un giorno ritornerà per effetto di qualche imprevedibile metempsicosi, come una poetica dannazione. Piena di nuove, pericolose lusinghe.

Francesco Durante, I napoletani, Neri Pozza, 2011