Perché scrivo?

Non l’ho mai capito. Nato in una famiglia semi-analfabeta e povera, con nessun uso di libri o di scuola, cominciare a scrivere intorno ai quattordici anni fu una delle peggiori disgrazie che potessero capitarmi. Ero stato avviato ai mestieri quando accadde quella cosa che ancora non riesco a spiegarmi. Comunque, per l’urgenza di guadagnare, tutto quanto ho scritto mi è stato ordinato dai giornali, riviste ed editori.
Quella parvenza d’ispirazione che tutti abbiamo spunta in me solo davanti ad un ordinativo con relativa lunghezza dello scritto quasi sempre racconti, brevi saggi e articoli. Non credo, inoltre, a una qualsiasi utilità dello scrivere. È uno dei lussi che si permette l’umanità.

Chi sono, da dove vengo, perché scrivo

Rea, i giovani lettori di questo libro vogliono conoscere direttamente da lei, prima di cominciare, lei «chi è», «da dove viene»…

Mio padre nacque a Nocera Inferiore, un comune a trentasette chilometri da Napoli. Suo padre, mio nonno, lo destinò a fare il muratore. La casa di mio padre era un basso di due stanze. Stanzette, badi, faccio per dire: erano locali come altre centinaia di bassi: con gabinetto alla turca in comune. Mio padre ebbe infanzia da vagabondo, come tanti altri ragazzi della sua età e della sua condizione. Mia madre nacque a Torre del Greco, comune di tradizione marinara, allora collegato a Napoli con un tram. A sei anni cominciò a lavorare come «corallina». Poi prese il diploma di levatrice, in dialetto – mammana –, e, fino alla morte, fu lei il sostegno della famiglia. [Continua…]

L’altra faccia

Domattina dal nostro libraio potremmo trovare fresco di stampa un ennesimo romanzo o libro di racconti su Napoli, la Sicilia o la Calabria, la Basilicata o la Puglia ed essere costretti a ricrederci sulla validità di una materia a prima vista scontata. A rigore, gli argomenti trattati dal Verga nei Malavoglia o nel Mastro Don Gesualdo, dalla Serao nel Paese di Cuccagna, nella maggioranza delle novelle e dei suoi saggi, persino dal Mastriani nei suoi 107 romanzi, in alcuni ambienti, potrebbero essere attuali. L’uomo che vendeva ciliegie, dando la voce di porta in porta e tormentandosi per l’indifferenza della bella porticese, questo simpatico eroe di una delle più alte liriche di Di Giacomo, cammina ancora per le nostre strade. Verga e Di Giacomo, Mastriani e la Serao sarebbero ancora nel vero e i loro eroi rintracciabili e riconoscibili. [Continua…]

Dall’intervista di Corrado Piancastelli a Domenico Rea

La plebe può ancora suggerire qualcosa a uno scrittore?

Ho già scritto a questo proposito un saggio intitolato Cummeo al bowling variamente interpretato e giudicato. La plebe come espressione di miseria esiste ancora e le sue condizioni potrebbero persino peggiorare. Ma come mentalità, spirito, comportamento e aspirazioni le cose sono profondamente cambiate. I plebei napoletani, nella sostanza un popolo oppresso, tendono a uscire dai vicoli e dai bassi. Questo desiderio ha comportato una rottura completa e definitiva con le vecchie suggestioni, fatalismo e rassegnazione. Ma il passaggio, secondo me, non sta avvenendo sul ponte della borghesia, ma su quello della massa con una presa di coscienza pericolosamente consumistica. Quindi se la plebe come ricordo può sollecitare all’infinito l’immaginazione di uno scrittore come un corpo reale presente, con un suo rituale, eccetera, è divenuta qualcosa di ambiguo ed equivoco. [Continua…]