Dall’intervista di Corrado Piancastelli a Domenico Rea
La plebe può ancora suggerire qualcosa a uno scrittore?
Ho già scritto a questo proposito un saggio intitolato Cummeo al bowling variamente interpretato e giudicato. La plebe come espressione di miseria esiste ancora e le sue condizioni potrebbero persino peggiorare. Ma come mentalità, spirito, comportamento e aspirazioni le cose sono profondamente cambiate. I plebei napoletani, nella sostanza un popolo oppresso, tendono a uscire dai vicoli e dai bassi. Questo desiderio ha comportato una rottura completa e definitiva con le vecchie suggestioni, fatalismo e rassegnazione. Ma il passaggio, secondo me, non sta avvenendo sul ponte della borghesia, ma su quello della massa con una presa di coscienza pericolosamente consumistica. Quindi se la plebe come ricordo può sollecitare all’infinito l’immaginazione di uno scrittore come un corpo reale presente, con un suo rituale, eccetera, è divenuta qualcosa di ambiguo ed equivoco.
Come ti nacque l’idea di chiamare Nofi Nocera Inferiore?
A quindici anni, quando scrissi il mio primo racconto, mi venne fatto di scrivere, invece di «C’era una volta a Nocera Inferiore… », «C’era una volta a Nofi… ». Non saprei dire le ragioni motivazionali per cui si verificò questa sostituzione. Forse per non avvertire il peso di un nome di città così lungo e composto. Ma c’è un’altra versione di cui mi compiaccio. Nofi era il nome di un regno dall’orizzonte illimitato. Nocera un’identità storica, la rivale della Pompei romana, una terra di conquista di Annibale, una campagna ubertosissima ben segnalata da Luigi Einaudi. Nofi era invece una terra mia in cui qualche volta i protagonisti rassomigliavano a quelli realmente incontrati, conosciuti e frequentati di Nocera Inferiore.
Perché Le formicole rosse non hanno avuto un seguito?
Si tratta di un’amara e triste «istoria». A dieci anni, durante le vacanze dalla quinta elementare alla prima complementare, scrissi una tragedia: Il Bruto, che fu regolarmente recitata, sullo spiazzo di un cortile all’interno di una fabbrica di pomodori conservati e sul palcoscenico di un teatrino di cartone, da alcuni miei compagni di scuola. La seconda «pièce» la scrissi nel 1947, a via Ripamonti a Milano. Si intitolava Le formicole rosse. La scrissi in una notte. Il giorno seguente la lessi a uno degli alunni più colti d’Italia, Roberto Cantini. Alberto Mondadori volle che ne dessi lettura a un gruppo ristretto di amici e di intenditori nella sala della Galleria Cairola. Fu una serata memorabile. Remigio Paone mi spedì un telegramma di due pagine. La rappresentazione sembrava imminente. Ma non se ne fece nulla. Gennaro Magliulo, regista napoletano, ne curò una recita a voce in una stanza del Circolo della Stampa di Napoli; Raffaele La Capria, una riduzione radiofonica. Una trasmissione integrale fu messa in onda dalla Radiodiffusion Française e «Le Monde», se ben ricordo, ne parlò bene. Ma quanto a una vera e propria rappresentazione, niente da fare. Soltanto nel dicembre del 1958 i giovani della Compagnia Teatrale Italiana, diretta da Paolo de Grande, ebbero il coraggio di metterla in scena con mezzi limitatissimi al Millimetro (cento posti) di Roma. Ebbe buona stampa. Proprio mentre rispondo alle tue domande Gennaro Magliulo ne sta preparando una edizione per la RAI, con Luisa Conte, Nino Taranto, e altri bravissimi attori professionisti. In seguito, sollecitato da Franco Enriquez, quando fu di stanza a Napoli, scrissi un Re Mida. L’Enriquez venne ad ascoltarlo a casa insieme con la Moriconi. Ne disse un bene enorme, ma non se ne fece nulla lo stesso. Purtroppo ho smarrito il copione del Re Mida e non so che cosa darei per riaverne il dattiloscritto. Liquefatto. Era una commedia in tre atti, scritta in un linguaggio barocco-ridondante, alla maniera delle traduzioni ottocentesche dello Shakespeare. Un’amara istoria, dicevo, che insegna a non scrivere di teatro in Italia se non si fa parte del clan, se non ci si piega a scrivere commedie sulla misura del capocomico e, soprattutto, del regista, impotente per natura e quindi esoso.
[NdR: Il manoscritto del Re Mida, ritrovato da Gennaro Magliulo nel 1978, è stato pubblicato dalla SEN nel 1979.]
Usi con quasi assoluta indifferenza sia la formula narrativa che quella saggistica. Nei due aspetti più felici l’una vale quasi l’altra sia per la resa linguistica che strutturale. Ritieni che sia più importante l’una o l’altra? Pensi che un saggio-racconto come il tuo possa rappresentare una salvezza per la narrativa senza cadere nel moralismo di maniera?
Ne avessi la possibilità scriverei soltanto saggi alla maniera di Lytton Strachey, di Aldous Huxley, di alcuni magistrali campioni di Stefan Zweig. La più grande letteratura contemporanea è di tipo saggistico e alcuni saggisti sono assai più resistenti e consistenti di una miriade di narratori.
Quali testi salveresti della letteratura napoletana?
Le ricordanze del Settembrini, la Storia della letteratura italiana del De Sanctis, I canovacci del teatro dell’arte del Pulcinella sei e settecentesco, Il Pentamerone del Basile, le prose dell’Imbriani, il testo del Guarracino e tutto Mastriani, qualche punta di diamante del Viviani. Il resto è assai più vicino alla letteratura che all’interpretazione di un popolo. Vi è più Napoli in Croce, nella Storia di una capitale di Doria, in molti scritti di Giuseppe Galasso, che in tutta la Serao o in Marotta, che furono scrittori di gran conto.
Corrado Piancastelli, Domenico Rea, «Il Castoro», n. 98, febbraio 1975