Una domenica d’ottobre del ’68, Kerouac venne a pranzo insieme a Domenico Porzio della Mondadori.
C’era un sole caldo quella mattina, di quel calore confortevole di certi autunni e cieli napoletani, pensammo di pranzare fuori al terrazzo.
Timidissima, sono stata in silenzio per tutto il tempo del pranzo, attonita dall’atmosfera che si era creata.
Mio padre sembrava divertirsi a parlare un napoletano stretto, Kerouac parlava un americano rarefatto ormai dalla tredicesima birra e sembrava un angelo uscito dal mare, e Domenico Porzio tentava di traghettare e di tradurre ora all’uno ora all’altro. Ricordo il blu degli occhi di Kerouac, un blu mai più rivisto, d’una bellezza innocente e pericolosa. Ricordo i suoi ziti al ragù, ormai secchi e disfatti nel piatto e lui che si rivolgeva a mia madre dicendo: «Troppo boni, troppo boni per mangiare».
Più tardi propose a mia madre di incontrarsi e al suo rifiuto le disse che era una sporca borghese.