L’uomo ha la faccia quadrata; gli occhi sospettosi e mobilissimi ereditati dall’inabissamento del mondo contadino sono nascosti da grosse lenti da impiegato; sulla pelle del volto si aprono minuscoli crateri dai quali erompe una oscura malattia; è scampato a una Peste trecentesca dove gli ancora vivi si infilano in vicoli bui a fare l’amore in piedi e dove la furia della morte incomprensibile accendeva il sangue fino nei pagliericci e nelle piaghe dei lazzaretti, mescolando in una sola e ebbra totentaz corruzione della carne e indistruttibilità del desiderio: è questa la faccia di scrittore che si imprime nell’immaginazione dopo qualche pagina di Le due Napoli di Domenico Rea, un libro di Andrea Di Consoli sulla Napoli evocata dalle opere dell’ultimo Rea. Ma un ultimo Rea dove l’aggettivo non debba per forza indicare l’autunnale limpidezza degli addii, o la fragile serenità del distacco: perché non c’è niente di tutto questo nello scrivere di un uomo in cui l’avidità per il calore della vita si univa senza scampo al cupo rimbombare a vuoto della morte, in una pompa barocca che portava in processione lo Scheletro ghignante e il ventre fecondo delle Madonne. Ma il barocco in Rea non si mostra quasi per niente nella scrittura, che è costruita su una sintassi in fondo classica, insaporita da un gusto per parole pescate un po’ come una massaia prende dalla spasella il cefalo vivo vivo o la vongola più pensante, più grossa, con più corpo, no: barocco era lui stesso. Era lui che vedeva il mondo in carnali emblemi allegorici, che si rifiutava alla ragione dei troppo colti fingendo di parlare dalla bocca del popolo, che combatteva ferocemente le teorie semplificatrici convinto che il suo afferrare la realtà con parole imperfette ma fisiologiche fosse in fondo una forma della realtà stessa.

Il personaggio dell’ultimo Rea che di Di Consoli costruisce con un intelligente montaggio di citazioni, è un flâneur legato alla sua Città da una pulsione mossa ugualmente dalla passione e dal disgusto, che và in giro nella stessa Napoli dentro la quale siamo condannati tutti a essere flâneur ubriacati dagli opposti, ma sicuri di ciò che vediamo e che sentiamo, e forse costretti a usare parole più pesanti perché più grande è incertezza sul significato delle cose che ci appaiono. Viviamo in una Parigi provinciale dove le macerie sono più vive dei passanti? Siamo piombati nel sogno di un Piranesi colpito dal morbo della modernità che mescola fusti di colonne greche e allumini anodizzati? O ci aggiriamo semplicemente tra ciò che resta di un’autoinvasione indigena che si è inflitta da sola la più oltraggiosa delle sconfitte? Con il passo lento e insieme impetuoso che risuona fisicamente nei suoi ultimi libretti, Rea va in giro cercando di non rifiutare ciò che vede o che gli sembra di scorgere come premonizione della fine del mondo, ostinandosi a capire il perché di quello che gli si mostra come un feroce e inevitabile degrado. Ma tutto quello che Rea capisce in profondità lo capisce perché lo ha vissuto o lo rivive, perché il barocco che è in lui vive la realtà in una sorta di allegoria persino quando la analizza di prima mano, con i propri occhi e i polpastrelli. Le esagerazioni di Rea sono il risultato di questo accostarsi da miope all’oggetto: con gli occhi addosso qualsiasi cosa si dilata, si sgrana, si ingigantisce, esce dalla norma, si fa mostro e prodigio. Ma l’avidità per le superfici concrete, per ciò che si può soppesare in una mano o avvinghiare in un abbraccio, a nessun costo si può scambiare in Rea per solarità o armonia su cui versare lacrime di coccodrillo. Proprio come l’amico-nemico Compagnone anche Rea era antisolare, ma se Compagnone da illuminista irriducibile cercava di spiegare e fare luce fin troppo nel perché del buio, Rea quel perché si ostinava a ignorarlo: e la sua forza consisteva proprio in quel quasi religioso ignorabimus. Lui stesso era impastato della materia che maneggiava, lui in persona era sempre dentro quello che scriveva non da spettatore che giudicava i burattini, quanto attore che voleva cavarsi fuori dalla trappola della scena e insieme non riusciva a separarsi dall’adorato spettacolo. Ma in questa rappresentazione di attaccamento viscerale alla vita si apriva però nei momenti più inaspettati una voragine, un buco nero storico e insieme, che l’ideologo della Napoli vitalistica rinata dal caos del dopoguerra lo sapesse o meno, profondamente personale.

Così Rea, se anche non arrivava a odiare in se stesso il nemico come era accaduto a Compagnone, era scisso, incrinato, lacerato: ma in quel suo squarcio ci stava riparato e prigioniero come in un primordiale utero-tomba, sepolto con tutto il corpo massiccio in quella fessura che da Una vampata rossore fino a Ninfa plebea è ossessivamente ritorno e regressione alla naturalezza assoluta ma anche, come rivela la terribile metafisica della malattia in Una vampata di rossore, scoperta fisiologica dell’orrore invincibile della Natura. Eppure da qualche parte una saldatura che tenesse insieme tutto doveva pure esistere, sembrava ripetere Rea, ma la sola saldatura che trovava oltre allo sprofondamento ripetitivo nell’oblio erotico, era la scrittura. Uno scrivere per abitudine, per avere le scarpe di qualità e cravatte eleganti, per assuefazione allo stupefacente, per noia: sì, forse lo scrivere di Rea alla fine era tutto questo, ma anche qualcosa di più nascosto, misterioso: lo scrivere come argentea bava di lumaca, linfa e sudorazione psichica, scrittura che si trascina pazientemente le cose sulle spalle per sciorinarle a un tratto con ampio gesto teatrale, nella ricerca disperata di dire qualcosa di radicale sulla mutezza del corpo ma ostinandosi a dirlo proprio con il rumore di parole che si avvolgono in spire, si attorcono come funi, si inseguono e si accumulano per rompersi in impreviste, sorprendenti dissonanze. Ma chi aveva pensato prima di questo libro di Di Consoli a leggere nel Rea considerato minore un altro scrittore, e a cercare proprio nella sua crisi le tracce di una voce diversa? Il merito di Andrea Di Consoli non è solo quello di puntare in questa direzione, ma quello di restare con il fiato sul collo dei testi, facendo parlare Rea direttamente e insieme sollecitando con passione in una sorta di intervista postuma, riuscendo a far affiorare intuizioni che dovranno essere percorse ancora a fondo, come quella che conduce a scavare nei rapporti reali e immaginari tra Rea e il padre, o quella che si aggira intorno alla nostalgia di Rea per un Passato diventato mito come centro del suo universo di scrittore.

Le due Napoli di Domenico Rea ridà la voglia di andare a frugare negli anfratti e nelle sporgenze del meteorite-Rea, in quel pezzo di materia scritta staccatosi da un pianeta remoto e animato dal desiderio di ritornare proprio in quel prima della storia da sempre perduto per il quale si accendeva l’insaziabile nostalgia di don Mimì, il suo onirismo bramoso di possedere la polpa nuda sotto la gonna sollevata delle cose. Per stringere tra le mani la realtà vera come amuleto contro la morte, o per abbracciare il fantasma di una realtà che vedeva lui solo? Ma su questa domanda è tempo per ora di arrestare il discorso, e invitare il lettore ad avventurarsi in queste pagine e finalmente nella scrittura dell’uomo di Nofi, solo e senza più guide dentro i vicoli oscuri e gli slarghi lucenti dell’ultimo Rea.

Giuseppe Montesano